Capitolo 18

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«Ci hanno chiesto di costruire 50 pozzi in tutta Tulear!»

Ci sono frasi in grado di cambiare una vita. E poi ci sono frasi in grado di cambiare tantissime vite. Ecco, questa appartiene senza dubbio alla seconda tipologia.

Fu la prima cosa che mi disse Davide quando ci sentimmo al suo rientro dal Madagascar.

Il rumore della cerimonia di inaugurazione del Villaggio Afaka del 14 febbraio 2018 aveva continuato a echeggiare nei cuori di chi vi aveva partecipato. Per Davide e Nicole era stata la consapevolezza di aver raggiunto un risultato enorme grazie ai tanti sacrifici dei mesi precedenti. Per Francesco e la sua famiglia la gioia di aver contribuito ancora una volta, nel nome della piccola Lucia, a portare acqua potabile a tantissime persone. Per i bambini della scuola, le loro famiglie, gli insegnanti, il personale di servizio del Villaggio l’entusiasmo per aver partecipato a un evento di cui si era addirittura parlato al telegiornale locale. Ma per le autorità della città che avevano assistito alla cerimonia, quel rumore aveva preso anche un’altra forma.

Tulear è la città più povera di tutto il Madagascar. Tra il centro e la periferia conta circa trecentomila abitanti, dei quali meno del venti percento ha accesso all’acqua potabile. Ovvero solo chi abita nei quartieri più ricchi (anche se questo aggettivo a Tulear suona come una presa in giro) e può permettersi la costosa acqua distribuita dalla compagnia privata Jirama.

E gli altri?

Gli altri, spesso donne e bambini, partono ogni mattina dalle loro capanne con le taniche vuote. Camminano anche per diversi chilometri fino alla fonte idrica più vicina al loro villaggio. Una fonte che, nel migliore dei casi, è un “pozzo tradizionale”, come lo chiamano loro. Cioè un vecchio pozzo, costruito magari da una ONG che si è ricordata di apporre il proprio logo, ma che poi si è dimenticata di fare manutenzione. Con il risultato che, nel tempo, il pozzo ha smesso di funzionare ed è rimasta solo una buca aperta, sul fondo della quale residua un po’ di acqua melmosa da cui le persone attingono con secchi luridi. E questo è il migliore dei casi.

Nei casi peggiori le fonti di approvvigionamento idrico sono acquitrini in cui si abbeverano anche gli animali, pozzanghere lungo la strada, buche scavate nel letto sabbioso di un fiume in secca. Quella che si trova ovviamente non è acqua potabile. Non è acqua.

Però i più poveri non hanno altro. Riempiono le loro taniche con questa melma. Tornano alle loro capanne, a piedi, trasportando questi pesi. Quando arrivano, se hanno un po’ di carbone o legna, la fanno bollire per purificarla un minimo. Se non ce l’hanno, la bevono così. E ovviamente succede di tutto. Cose non voglio neanche raccontarti ma che puoi immaginare. Anche se ti confesso che finché non le vedi con i tuoi occhi fai fatica a comprenderle davvero.

Ora che ti ho raccontato un po’ lo scenario di Tulear relativamente alla disponibilità di acqua potabile, ti è sicuramente più facile capire perché le autorità della città, dopo aver inaugurato il pozzo che avevamo costruito all’interno del Villaggio Afaka, avanzarono alla nostra associazione la richiesta con cui ho aperto il capitolo.

«Ci sarebbero almeno 50 pozzi da costruire per coprire tutta la periferia di Tulear e portare l’acqua potabile a tutti gli abitanti».

Quando Davide me lo disse era elettrizzato, ma anche spaventato da questa richiesta. Fino a quel momento, sia noi che l’associazione toscana ci eravamo occupati “soltanto” di gestire un villaggio scolastico. Un progetto importantissimo e molto complesso che negli anni aveva garantito educazione di base, cibo e assistenza sanitaria a centinaia di bambini poveri. Avevamo anche costruito un pozzo che oggi forniva acqua potabile a tutti gli studenti della scuola.

Ma accidenti, qui si parlava di costruire 50 pozzi!

In tutta la periferia di Tulear!

Erano tantissime le incognite e le perplessità.

La prima: dove avremmo trovato i fondi per costruire 50 pozzi?

La seconda: chi li avrebbe costruiti e dove?

La terza: chi avrebbe gestito tutto il progetto?

Ce n’erano naturalmente tante altre, ma già smarcare queste tre sembrava una sfida impossibile per le nostre forze.

Dall’altra parte c’era però la prospettiva di poter cambiare non centinaia, ma decine di migliaia di vite.

Di portare l’acqua potabile nei villaggi più disagiati della periferia della città più povera del Madagascar.

Di dare la possibilità ai bambini di quei villaggi di andare a scuola e alle donne di lavorare, anziché impegnare le loro giornate nell’approvvigionamento idrico. 

Di contrastare la mortalità infantile e la diffusione di diarrea, colera e chissà quali altre malattie.

Di ridurre drasticamente il consumo di carbone e legna dovuto all’ebollizione dell’acqua contaminata, ed evitare quindi l’emissione di tonnellate di CO2 in atmosfera.

Di contribuire direttamente a creare un futuro più dignitoso per queste persone, un futuro in cui ognuno avrebbe avuto accesso gratuito e illimitato all’acqua potabile.

Tu cosa avresti fatto?

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